lunedì 10 agosto 2009

La storia di Anna, badante ''regolare''


"Dodici famiglie, dieci morti, uno lasciato”. È il personale bilancio di sette anni di lavoro come badante di Anna. Lo sintetizza con chiarezza, a dispetto del suo italiano stentato, che peggiora quando la fretta di raccontare la incalza. Viene dalla Moladavia. Nell’immaginario collettivo i “clandestini” arrivano per mare su un gommone o aggrappati al telaio dei camion: per molti è davvero questa la strada che porta in Italia, ma in realtà la maggior parte (in media oltre il 60% degli ingressi l’anno, secondo i dati del ministero dell’Interno) transita dalle frontiere con visti regolari. Anna è una di loro. È arrivata con un visto turistico di 10 giorni in Ancona nel 2000, senza soldi e senza conoscere l’italiano, nemmeno per le richieste minime ma essenziali. Ha pagato 200 euro il biglietto di viaggio, ma, dice, c’è chi arriva a pagare anche 800 euro per entrare in Italia con la speranza di un lavoro. Nei primi giorni ha dormito per strada, “una notte vicino al mare”, poi ha incontrato una donna ucraina in stazione, l’ha sentita parlare e forse per un attimo si è sentita meno straniera. È stata lei a darle l’indirizzo della Caritas, dove è stata aiutata e accolta per i primi 45 giorni della sua permanenza in Italia. Poi il primo impiego, da irregolare, presso un prete, che si è preso cura di lei per due anni e le ha permesso di mettersi in regola con la sanatoria del 2002. Ha un diploma di infermiera e, nel suo paese, ha lavorato con persone psichiatriche, epilettiche e tossicodipendenti; racconta che il suo lavoro era esattamente uguale a quello delle infermiere italiane: flebo, medicazioni, farmaci. Per questo in Italia ha curato anche persone malate, anche in condizioni molto grave, malati di tumore. La Perestroika ha messo in ginocchio il sistema economico e la sua vita: due figli da far studiare e un marito che si ammala di cuore e ha bisogno di un intervento quando ormai lo stipendio è ridotto a pochi spiccioli. “Sono venuta solo per lavorare e guadagnare”. La spinta è il bisogno economico, la disperazione: per questo non vuole restare in Italia a lungo. Non tutti i lavori sono andati bene ricorda Anna: “Piangevo notte e giorno. Mi dicevano: non fai niente, non capisci niente, non sai cucinare, mangi troppo”. (da “Redattore sociale”)

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