Sono 13 i cittadini somali che hanno depositato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia per essere stati respinti in Libia lo scorso 6 maggio. A. è uno di loro. Appartiene alla minoranza degli Ashraf. È nato nel 1983 a Mogadiscio, ed è sempre vissuto nella capitale fino a quando, nel 2006 è stato costretto a abbandonare il paese, lacerato da anni di guerra civile e violenze claniche. Gli Ashraf in particolare hanno dovuto subire negli anni numerose persecuzioni da parte dei clan maggioritario del paese, gli Hawiye. Nel 2004, il padre di A. venne ucciso per mano di un esponente del clan degli Hawiye, che aveva cercato di estorcergli con la forza i documenti attestanti la proprietà della loro casa. E lo stesso A. era stato costretto sotto minaccia a divorziare dalla moglie. Dopo la morte del padre, la responsabilità per il sostentamento e la tutela della madre e della sorella, pesava su A. Ma soltanto due mesi dopo, la sorella scomparve. L’avevano vista uscire di casa con una vicina. Si pensa che l’abbiano portata in Yemen. La decisione di lasciare Mogadiscio maturò nel 2006, dopo che le milizie delle Corti islamiche ebbero preso il controllo della città. Per tutelare la propria incolumità, A. fuggì in Etiopia, ma era senza documenti, e venne arrestato alla frontiera e detenuto per otto mesi, prima di essere rilasciato e ritornare in Somalia, a Hargeysa, da dove ripartì immediatamente per Gibuti, e poi – dopo un altro mese di carcere – per il Sudan, dove consegnandosi spontaneamente alle autorità venne trasferito nel campo profughi di Kasala. Cinque mesi dopo riuscì a attraversare il deserto del Sahara e a entrare in Libia. Era il luglio del 2007. Un anno dopo, nell’agosto del 2008 riusciva a imbarcarsi per l’Italia. Ma l’imbarcazione rimase presto senza carburante e finì alla deriva nel Canale di Sicilia. Passavano i giorni e i soccorsi non arrivavano. Cinque persone morirono disidratate e di stenti. La salvezza arrivò da una nave spagnola. Il peschereccio “Clot de l'Illot”, che il 22 agosto del 2008 attraccò nel porto di Tripoli consegnando i 49 naufraghi alle guardie libiche. A. venne nuovamente arrestato. A Tripoli, nel carcere di ‘Ain Zara, dove venne detenuto per otto mesi. Lo rilasciarono nell’aprile del 2009. Non volle aspettare altro tempo, e comprò un passaggio sulla prima imbarcazione diretta a nord, insieme a altri 45 passeggeri. E per la seconda volta in un anno, venne respinto. Stavolta però dalle autorità italiane. Era il 6 maggio del 2009. Oggi, quattro mesi dopo, si trova ancora in un campo di detenzione in Libia, pur essendo un potenziale rifugiato politico, e pur essendo difeso da un avvocato dinnanzi alla Corte europea. (da "Redattore sociale")